Nella Valle di Santo Spirito, sulle tracce del Medioevo
Se si conviene che le montagne non sono soltanto luoghi dalla natura incontaminata ma anche portatrici di testimonianze della millenaria presenza dell’uomo, può valere la pena di mettersi in cammino alla scoperta di “segni” nascosti, spesso enigmatici, di cui sono ricche le valli e i monti d’Abruzzo, capaci di raccontarci ancora storie inedite che si perdono nei meandri della storia.
È con questo spirito che domenica 19 luglio il gruppo del Cai di Loreto Aprutino, abbandonando i più consueti percorsi del vicino Gran Sasso, è approdato con curiosità e interesse all’altra montagna abruzzese, la Majella “madre”, e giusto nel suo cuore più intimo, la Valle di Santo Spirito. Se già la strada in salita che conduce, in mezzo alla faggeta, all’abbazia fondata da San Pietro Celestino connotava di fascino mistico il viaggio, l’itinerario scelto aggiungeva ulteriori spunti di conoscenza, configurandosi come un vero e proprio percorso a ritroso nel Medioevo. Prendendo infatti il sentiero all’altezza della cosiddetta “Ripa Rossa” (segnata da una grossa nicchia scavata nella roccia a contenere probabilmente una statua ora dispersa), e da lì scendendo al fondo del vallone, si arriva nel punto, denominato “Tre fossi”, in cui la Valle di Santo Spirito si biforca nella più addentrata “Valle Buglione”, che la volgata locale chiama “valle Cuijone”. Non serve molta strada in mezzo alla faggeta per raggiungere – e qui è stata la “scoperta” – un grande masso, apparentemente anonimo; ma qui la nostra guida ferma bruscamente il gruppo, ed invita tutti ad osservare l’enorme scudo inciso che campeggia sul dorso della roccia, al centro del quale spicca a rilievo una croce dai vertici smussati. Una presenza seducente, soprattutto perché situata in un luogo così impervio, che chi ci conduce non esita a riportare a vicende antiche, confessando quella che al momento è soltanto un’ipotesi, sebbene affascinante: non sarà infatti azzardato immaginare – ci dice – che quell’enorme scudo potesse essere un segno dei Crociati, di quelle soldataglie che durante la Prima Crociata (1096-99), guidate da Goffredo di Buglione, giungevano ad imbarcarsi a Bari per andare a liberare la Terra Santa. Ne farebbe fede, oltre al chiaro emblema crociato, il riferimento del toponimo di Valle Buglione. Ma le sorprese non finiscono lì, ché nella parte bassa della stessa roccia sta incavato un piccolo tabernacolo, affiancato da due torri, ed una freccia triangolare sul timpano: l’indicazione di un percorso, che non a caso si rivolge a sud. L’interrogativo prende corpo nella considerazione di come, nel Medioevo, quelle valli non fossero boscose ed impenetrabili quali sono ora, ma risultassero brulle e petrose, costituendo passaggi e valichi di un territorio la cui viabilità appariva molto diversa dagli orientamenti attuali. Del resto quei luoghi erano già noti ad anacoreti e mistici solitari, come prova la presenza dell’abate di Montecassino, Desiderio (poi papa col nome di Vittore III), che nel 1053 volle ritirarsi in meditazione proprio in questa valle. E non a caso, duecento anni più tardi, Pietro da Morrone vi trovò felice rifugio per fondare l’ordine dei frati della Majella, poi Celestini.
Qualcuno raccoglie la suggestione, e già prova ad immaginare lo scalpitare di zoccoli e i nitriti di un’armata di cavalieri e di religiosi al seguito, e canti sacri mischiarsi al vociare di rudi soldati.
Ma i tempi imposti dal lungo itinerario ci obbligano a riprendere repentinamente il cammino, giusto nella direzione indicata da quella freccia scolpita nella roccia: ci attendono circa tre ore di marcia serrata nella fitta faggeta, orientati soltanto dal GPS e dal sentiero agevolmente tracciato. Ma il fresco del bosco presto ci abbandona, allorché usciamo allo scoperto, nella vasta brughiera che costeggia sul versante opposto la Valle di Santo Spirito, ormai ridiscesa di vari chilometri. Costeggiando Valle Giumentina (altro luogo affascinante di ritrovamenti archeologici, dove si è portato alla luce un villaggio neolitico), si prosegue in attesa di trovare lo svincolo, alla nostra destra, per ridiscendere nel medesimo vallone all’altezza dell’Eremo di San Bartolomeo di Legio. Il caldo di una stagione particolarmente torrida si fa nuovamente sentire, mentre si attraversa la steppaia intervallata da numerosi, quasi totemici, mucchi di pietra: è lo “spietramento”, che la fatica degli uomini ha prodotto nei secoli per rendere più agevoli i pascoli. Si scende così verso l’eremo appena avvistato, e che si fa sempre più vicino: una spartana costruzione in pietra che sfrutta le concavità naturali della roccia, dando luogo a quel fenomeno di architettura spontanea che accomuna gli eremi della Majella. Prima di risalire alla chiesetta di San Bartolomeo e farne risuonare in modo liberatorio la campana, sostiamo alla sorgente dove l’acqua freschissima sgorga dalla roccia, e che la tradizione religiosa del luogo vuole dovuta al lancio del chiavistello della chiesa, da parte di Pietro Celestino. La nostra guida ci ammonisce a non prendere la scalinata di sinistra per risalire, poiché la “scala santa” si sale solo in ginocchio, recitando le orazioni al santo.
La chiesa è costituita per tre lati dalla roccia naturale, che fa da parete, pavimento e da tetto, e sulla facciata presenta ancora un affresco duecentesco, con Cristo benedicente e la scritta “Ego sum lux mundi. Qui sequitur me non ambulat in tenebris”.
L’ultima salita in mezzo alle felci è lo strappo più duro, prima di ritrovare il ristoro del pranzo conviviale sotto il pergolato del ristorante Macchie di Coco.
Ma le suggestioni “mistiche” della giornata non si disperdono nelle tagliatelle e nel vino rosso, poiché non si poteva rinunciare alla suggestiva visita guidata all’abbazia di Santo Spirito a Majella, ritornati sul percorso da cui eravamo partiti.
Enrico Santangelo
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